Se c’è un’autrice che difficilmente mi verrebbe in mente di associare al Natale, quella è Irène Némirovsky.
Cosa potranno mai avere a che fare i suoi racconti pervasi dall’amarezza, i suoi ritratti di esseri umani prostrati dalla vita, o le sue storie di rapporti familiari avvelenati dal risentimento e dall’inganno, con la festa più gioiosa dell’anno?
Parecchio, in realtà: a patto che si accetti di lasciarsi alle spalle le tradizionali atmosfere dei Natali dickensiani, e guardare alle festività adottando, per una volta, una prospettiva forse meno allettante ma, ahimè, assai più diffusa di quanto si vorrebbe credere.
Siamo a Parigi, in una nevosa Vigilia di Natale, e mentre le vie della città scintillano di luci e colori e risuonano di canti natalizi, nella sontuosa dimora di una famiglia benestante fervono i preparativi per la notte di festa.
Scorgiamo così, in un susseguirsi di immagini, due genitori che battibeccano su questioni futili; due bambini euforici di fronte al maestoso albero allestito nel salone; ed una ragazza intenta a truccarsi per il ballo di quella sera, mentre la sorella, ancora in vestaglia, osserva la pioggia, immersa nei propri pensieri.
Non conosciamo niente di loro, eppure, da quei pochi fotogrammi rubati alla loro intimità domestica e proiettati dinanzi ai nostri occhi come su uno schermo, intuiamo immediatamente tutto ciò che ci occorre sapere.
È un po’ come guardare un film: uno di quei vecchi film francesi dove la malinconica ironia della narrazione cede, pian piano, il passo al sarcasmo più amaro; e non è un caso, infatti, che il racconto sia interamente strutturato come una vera e propria sceneggiatura cinematografica.
Osserviamo le scene attraverso lo sguardo distaccato e solo apparentemente asettico dell’autrice, che indugia sui dettagli e li descrive con accuratezza, regalandoci inquadrature vivide e profondamente eloquenti, senza però concedersi mai riflessioni personali, o lasciare spazio all’introspezione.
Paradossalmente, è proprio quella sorta di barriera eretta tra noi e i personaggi a rendere così percettibile tutto il loro tumulto interiore; sono gli sguardi, gli scorci delle loro conversazioni, i gesti casuali fedelmente immortalati dalla scrittrice, a lasciarci indovinare, senza che una sola parola venga detta in proposito, la realtà di quel matrimonio soffocato dall’ipocrisia e dalle reciproche infedeltà; o il dramma della povera Claudine, oppressa da un segreto inconfessabile e costretta a chinare il capo di fronte alle spietate convenzioni sociali.
Diventiamo, così, testimoni inermi di quel pietoso spettacolo della natura umana, che risalta come una nota stonata sullo sfondo di una Parigi vestita a festa, imbiancata dalla neve, adornata da ghirlande destinate a sfiorire in pochi istanti, sui marciapiedi calpestati dai passanti in festa.
È forse questa l’immagine che meglio d’ogni altra incarna l’essenza del racconto, rispecchiando, nell’effimera allegria di quei festeggiamenti, tutta l’amarezza e la miseria morale che si cela sotto una patina di apparenze ed ostentata opulenza, in un mondo dove il matrimonio non è mai espressione dell’amore, ma solo il prezzo da pagare per comprarsi la rispettabilità; dove accettare il compromesso è l’unico modo per non soccombere – e non sempre in senso soltanto figurato; dove perfino i tradimenti non hanno niente a che fare col sentimento, ma sono il mero palliativo di esistenze che procedono per inerzia.
Nello spazio di poche pagine, il racconto, sia pur nella sua semplicità, condensa tutti i temi più cari alla Némirovsky: dall’incapacità di accettare il passare degli anni, al perbenismo di facciata; dalla gelosia tra sorelle, alla noncuranza di due genitori troppo presi da se stessi, riportando alla mente, fin dalle prime battute, le atmosfere de Il ballo.
E se, come la trama suggerisce, ogni moto dell’animo umano verrà fatalmente spazzato via in quella tragica farsa che è la vita, a rimanere sono solo le lacrime silenziose della piccola Christiane, vittima innocente ed inconsapevole dell’egoismo e dell‘indifferenza degli adulti.
Il carnevale di Nizza
Nel volume intitolato Natale a Parigi, edito da Garzanti, è presente anche un secondo racconto, anch’esso scritto nel 1931 come il precedente, ambientato tra il 1907 e il 1914.
Protagonisti sono due giovani coniugi, Simone e René Jacquelain, e Tony, il cugino ventenne di lui, che vive insieme alla coppia, a Parigi.
Apparentemente affiatati, e perfettamente a proprio agio nel suddetto ménage domestico, i tre vedranno mutare gli equilibri familiari quando Simone e Tony, colpiti dall’influenza, si recheranno a Nizza, nei giorni del Carnevale, per trascorrervi la convalescenza.
Ancora una volta, la scrittura di Irène Némirovsky si articola sulla falsariga di una sceneggiatura, ed è innegabile che, nell’ambito di queste storie concise, tale scelta stilitica – che difficilmente avrei apprezzato in una narrazione più corposa – si riveli pienamente efficace.
Il racconto culmina proprio nel momento clou del carnevale, tra le atmosfere sfrenate e inebrianti della notte in cui tutto è permesso, narrando una vicenda senza tempo, imbastita intorno a tópoi letterari tutt’ora attualissimi: la passione dei sensi scambiata per amore; l’uomo pronto a concedersi qualche distrazione per poi lasciarsela serenamente alle spalle; la donna che invece ne resta inesorabilmente prigioniera; il tutto, senza prescindere dall’onnipresente tematica del matrimonio visto più come una prigione condivisa che come l’emblema di un’autentica unione.
Non c’è giudizio di sorta, ma soltanto il racconto impersonale di un’ordinaria avventura extraconiugale in qualche modo nobilitata, tuttavia, dall’eleganza della scrittrice.
Difficile non domandarsi come la stessa storia verrebbe raccontata al giorno d’oggi da un qualsiasi autore contemporaneo…
Ed è anche per questo che, comunque la si pensi sulle opere della Némirovsky o sulla sua visione della vita, non si può fare a meno di provare ammirazione per la sua scrittura raffinata ed incisiva, per la sua sensibilità e la grande intelligenza, nonché per la sua indiscutibile abilità di trasformare anche la più desolante delle vicende umane in un esempio di ottima letteratura.
Ciao Alice,
non ho letto questi due racconti di Irène perché ho ancora qualche suo romanzo da affrontare; non molti, ahimè, trattandosi di una delle mie scrittrici del cuore. Quest’anno mi sono tuffata ne La nemica, David Golder e Il signore delle anime. Tutti molto belli, tristi e profondamente cinici. Ma di un cinismo che trova le basi in una conoscenza fin troppo profonda delle dinamiche che all’epoca muovevano la ‘gente’ di Irène. Non mi stupisco nel leggere che quelli da te recensiti non sono racconti che scaldano il cuore, come ci si aspetterebbe nelle opere a tema natalizio. Della produzione di Némirovsky non ricordo un singolo romanzo ‘leggero’ o rasserenante, ma la sua è una penna priva di inutili sentimentalismi, salvo poi commuovere il lettore con due o tre secche parole sparse qua e là tra le pagine. Di rado ho trovato autrici in grado di farti provare emozioni così profonde e così disparate senza ricorrere a orpelli linguistici. Già la cruda e attendibilissima realtà che riesce a dipingere davanti ai nostri occhi è di per sé un piccolo miracolo. Adoro le traduzioni Adelphi, soprattutto quelle di Marina di Leo e Laura Frausin Guarino, ma proverò anche con questo volumetto della Garzanti. Di certo ogni opera di Irène va letta e pubblicizzata. Si tratta di una vera dea della letteratura che tutti, prima o poi, dovrebbero conoscere.
A presto,
Elisabetta
Ciao Elisabetta, perdona il ritardo con cui ti rispondo.
Innanzitutto ti ringrazio per il commento, che ho letto, come al solito, con vero piacere.
Riguardo Irène Némirovsky, devo confessarti che con lei ho un rapporto un po’ complicato perché in passato ho letto alcune sue opere mi ori che mi avevano lasciato piuttosto fredda. Apprezzo enormemente il suo stile, che tu hai descritto benissimo, ma da un punto di vista emotivo generalmente non mi coinvolge… O almeno, questo pensavo finché non ho letto quel magnifico romanzo che è Suite Francese. Da allora purtroppo non ho avuto modo di leggere altro di suo, fino alle scorse Feste, quando mi sono imbattuta in questo ottimo libriccino. Ora sono decisa a recuperare le altre sue opere, e mi sono già procurata diversi suoi romanzi.
Ad ogni modo, se avessi qualche titolo in particolare da consigliarmi, ti sarei veramente grata.
Quanto a questi racconti, non posso che consigliarteli. Credo siano facilmente apprezzabili anche da chi non ama particolarmente la Némirovsky, dunque nel tuo caso non ho dubbi che li gradirai. 🙂
Cara Alice,
ad oggi i miei romanzi preferiti di Irène sono ‘I cani e i lupi’ e ‘Il vino della solitudine’; quest’ultimo riprende il tema del difficile rapporto con la madre, ma lo fa in un modo che io ho saputo apprezzare molto di più rispetto a ‘La nemica’ e, soprattutto, a ‘Il ballo’. A me, sono sincera, sono piaciuti tutti i suoi libri tranne ‘Due’, che tratta un tema per il quale non provo alcun interesse. ‘Suite francese’ è certamente uno dei più belli, concordo con te, e mi riprometto infatti di acquistare anche ‘Tempesta in giugno’ che pare contenga alcuni capitoli inediti. Tra l’altro, l’edizione Adelphi già conteneva un carteggio piuttosto significativo tra la scrittrice e il suo editore, risalente al tempo in cui già erano iniziate le persecuzioni agli ebrei; oltre che per la splendida traduzione, è anche per quello che io consiglio sempre di acquistare quel volume specifico. Posso chiederti quali siano le opere di Irène che non hai apprezzato? Se ne apprezzi lo stile, che cos’è che non ti convince? Lo sviluppo della storia, i personaggi? Oppure prorpio il cinismo di Irène? Tra lettore e scrittore l’attrazione è qualcosa che spesso non si riesce a spiegare a parole. Forse sarà per il suo terribile vissuto, ma io mi sono sentita subito attratta dalle sue opere e, per quanto io sia molto romantica e sentimentale, ho trovato quella sua crudezza sin da subito molto commovente, spiegandola a me stessa come la naturale reazione a una sofferenza e a un’angoscia inimmaginabili. Capisco che però spesso possa essere percepita come freddezza. Quando anni fa regalai, tutta orgogliosa, ‘I cani e i lupi’ a una mia amica, rimasi molto amareggiata nello scoprire che non lo aveva apprezzato per niente. Anche lei aveva trovato la penna di Irène troppo distaccata. Del resto, il bello della letteratura è proprio questo: ognuno riesce a leggerci qualcosa in chiave strettamente personale.
Cara Elisabetta,
le edizioni Adelphi sono sempre notevoli e con ottime traduzioni. Nel caso di Suite francese io purtroppo acquistai un’altra edizione, ma prima o poi vorrei procurarmi quella Adelphi.
Le opere che avevo letto sono Il ballo, Il calore del sangue, e alcuni brevi racconti tratti da una sorta di antologia. Avevo anche provato a leggere Due, di cui avevo sentito parlare particolarmente bene, ma avevo desistito dopo pochi capitoli.
Ciò che mi impedisce di apprezzarla pienamente è, da un lato, la scrittura distaccata, dall’altro, credo, la visione della vita che ho sempre sentito molto lontana dalla mia, sebbene Irène avesse innegabilmente validissime ragioni per pensarla in tal modo.
Trovo che questa visione si rifletta sensibilmente anche nei suoi personaggi con cui, a dispetto dell’ottima caratterizzazione, fatico ad empatizzare (parlo, ovviamente, dei libri che ho letto fino ad ora).
Concordo pienamente con ciò che dici a proposito dell’attrazione – o, per meglio dire, della sintonia – nei confronti di un autore, infatti l’esperienza della tua amica non mi meraviglia affatto. Credo dipenda da un insieme di circostanze (sensibilità personale, gusto individuale, vissuto, comunanza di valori e punti di vista, etc…) che a volte sfuggono in parte anche alla nostra stessa percezione: semplicemente, alcuni scrittori riescono a conquistarci alla prima lettura, mentre con altri sembra permanere una sorta di barriera che ci impedisce di comprenderli a fondo; in qualche caso, invece, è solo la scelta dei libri che può rivelarsi non particolarmente felice. Nel mio caso accadde con Thomas Hardy, oggi uno dei miei autori preferiti in assoluto; la mia prima esperienza fu con Tess dei d’Urberville, che pur essendo un eccellente romanzo, non è mai stato tra i miei favoriti, e questo mi impedì, per un certo periodo, di apprezzare l’autore fino in fondo.
È per questo che con Irène voglio riprovarci: perché, indipendentemente dalla mentalità, credo proprio sia un’autrice che – con la storia giusta – potrebbe davvero piacermi.
Concordo perfettamente con te sull’importanza di amare i personaggi dei romanzi per poter godere delle storie di un autore.Di solito i miei scrittori del cuore hanno tutti personaggi adorabili; penso a Maud, a Dickens e a Burnett, ad esempio. Neppure io ho mai provato empatia per i protagonisti delle storie di Irène. Sento tutto molto distante da me; sia il contesto in cui si muovono che i loro sentimenti, tuttavia, per una misteriosa ragione a me ignota, sento molto vicina lei. E amo la sua scrittura per la sua notevole potenza espressiva.
Se può consolarti, neppure io ho apprezzato moltissimo ‘Il ballo’ e ho abbandonato ‘Il calore del sangue’; quest’ultimo per un problema di traduzione. Per il resto, tutti promossi a pieni voti. Speriamo tu possa trovare altri suoi testi di tuo gusto. Se vuoi provarci con un romanzo breve, ti consiglio “Come le mosche d’autunno”. Molto delicato anche nella traduzione (Adelphi). Poi, come ti dicevo, imperdibili I cani e i lupi e Il vino della solitudine (sempre Adelphi). A presto!
Elisabetta
Ti capisco molto bene, e ti ringrazio per i preziosi consigli che seguirò sicuramente.
A presto.