Mary Elizabeth Braddon: I mercenari del Natale

Fin da quando ero bambina gennaio è sempre stato ai miei occhi un mese poco simpatico: non per il clima rigido o per il sopraggiungere dei consueti mali di stagione, quanto piuttosto per via di quella strana e fastidiosa “malattia” che puntualmente mi colpiva ogni anno subito dopo l’Epifania: la malinconia post-natalizia.

Come era difficile, dopo due settimane di festeggiamenti, regali da scartare e giochi spensierati, tornare alla vita di tutti i giorni, riadattarsi agli orari consueti, immergersi nuovamente nel tram-tram quotidiano scandito dalla campanella delle lezioni mattutine, e dai pomeriggi trascorsi a studiare, tentando faticosamente, tra un capitolo di storia e un problema di matematica, di ritagliarsi un piccolo spazio da dedicare alle proprie passioni o, più semplicemente, a un po’ di meritato riposo. 

Quante cose sono cambiate da allora! Eppure, sebbene da molti anni ormai il 7 gennaio non coincida più col rientro a scuola, l’effetto che la fine delle Feste ha su di me, non è cambiato poi molto. 

Così, per fare di necessità virtù, quest’anno ho pensato di conciliare la mia riluttanza a congedarmi dal clima festivo, con l’esigenza di portare a termine alcune letture natalizie ancora in corso, e dedicare quindi l’intero mese di gennaio a queste ultime, nonché agli altri libri che mi hanno tenuto compagnia durante le Feste.


Il titolo di cui desidero parlarvi oggi è una recentissima pubblicazione Elliot: I mercenari del Natale, un racconto uscito originariamente sulla rivista femminile Lady’s Pictorial nel 1839, e tradotto per la prima volta in italiano appena qualche mese fa.

A regalarcelo è la penna inconfondibilmente vittoriana di Mary Elizabeth Braddon, prolifica scrittrice inglese attiva tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo, nota soprattutto come autrice di sensation novels (genere all’epoca assai in voga) e come creatrice di personaggi femminili dalle personalità decisamente anticonvenzionali per l’epoca.

Mary Elizabeth Braddon (1835-1915)

I mercenari del Natale (in inglese The Christmas Hirelings) con la sua trama semplice ed i personaggi perfettamente canonici, rappresenta dunque, per molti versi, un’eccezione nella sua produzione, tanto che la stessa scrittrice, raccontandone la genesi nella prefazione, disse:

“Questo racconto è stato un atto d’amore, un’occupazione nel tempo libero, scritto accanto al fuoco nelle lunghe sere autunnali, mentre fuori ululava il vento di sud-ovest tra gli alberi della foresta.”

Ed è proprio così che mi sono immaginata Mary Elizabeth Braddon: china sul suo scrittoio, alla luce fioca della candela, mossa, per una volta, non dal proposito di spiazzare i lettori, ma dal solo desiderio di regalar loro una storia in grado di scaldare il cuore ed ispirare sentimenti di benevolenza e compassione… proprio come un racconto natalizio del suo più celebre ammiratore: Charles Dickens.

E tipicamente dickensiano, in effetti, è lo stesso protagonista della storia: Sir John Penlyon, un attempato e ricco misantropo, con delle idee sul Natale degne del miglior Ebenezer Scrooge:

“Cosa significa il Natale per qualsiasi capofamiglia britannico? Primo, una domenica aggiuntiva infilata nella settimana, e alla mia età anche la settimana più lunga è troppo breve e le domeniche sono troppo ravvicinate tra loro; secondo, una pioggia travolgente di carte sotto forma di opuscoli, libretti, circolari e resoconti su tutti i progetti filantropici immaginabili per cavare denaro alle classi abbienti…

Cosa dobbiamo fare noi, persone civilizzate, con molto buonsenso e prive di stupidi sentimentalismi, per predisporre il nostro animo all’allegria e alla benevolenza natalizie?
È giustissimo per un taccagno come lo Scrooge di Dickens esplodere improvvisamente in gentilezza e giovialità dopo una lunga vita di avarizia. Distribuire tacchini e bere del punch erano sensazioni nuove per lui. Ma per noi, che da quasi cinquanta Natali distribuiamo tacchini e mettiamo le nostre sovrane sul piatto! Non puoi aspettarti che io sia entusiasta del Natale…”

Disilluso e duramente provato dalle vicissitudini patite, Sir John trascorre la sua solitaria esistenza tra Londra, dove occupa un seggio in Parlamento, e la sontuosa residenza di famiglia in Cornovaglia.
Proprio qui lo incontriamo per la prima volta, in una sera d’inverno, in compagnia della nipote Adela, una fanciulla annoiata ed inconsapevolamente snob, e del fidato ed insostituibile Mr Danby, “l’amico utile, la cui casa era ovunque”, che nel bel mezzo di una conversazione sulle imminenti festività, si concede una disinvolta, ed apparentemente innocua, osservazione:

“Nessuno si può godere il Natale se non ha dei bambini da rendere felici.
Se una persona non avesse dei bambini suoi, dovrebbe assoldarne alcuni per la settimana di Natale.”

D’altro canto, le convinzioni del padrone di casa (di certo condivise, ahimè, anche da molti ragionevoli adulti dei giorni nostri) sono ben note:

“Il Natale è una splendida istituzione in una casa dove ci sono dei bambini […] 
Se, in un modo o nell’altro, avessi un branco di bambini tutti miei, festeggerei il Natale nel migliore dei modi, come deve essere festeggiato. 
Ma i Penlyon sono una razza in via d’estinzione. Non ho dei figli che facciano affidamento su di me per divertirsi.”

Così, complice il clima pre-natalizio e l’insistenza di Adela, la bislacca idea del buon Danby, si trasforma in un progetto vero e proprio: accogliere in casa, ovviamente dietro corresponsione di un adeguato compenso ai genitori, un gruppetto di ragazzini poveri ma ben educati – i famosi “mercenari” a cui allude scherzosamente l’autrice – con cui celebrare le Feste in allegria.

Le conseguenze, almeno agli occhi Sir John, saranno inaspettate…

Illustrazione originale di F.H. Townsend (1894)

Con stile pacato e piglio ironico – prova ne sia il titolo volutamente fuorviante – Mary Elizabeth Braddon ci regala una classica storia di redenzione e perdono, tra le cui pagine, malgrado la fedeltà ai più consolidati paradigmi del romanzo ottocentesco, trovano spazio anche occasionali guizzi della Braddon più popolare.

Se però i personaggi femminili risultano appena abbozzati, ed il presunto colpo di scena può essere intuito con largo anticipo da noi smaliziati lettori moderni (e, sospetto, anche dello stesso pubblico dell’epoca) il vero fulcro del racconto risiede nel genuino ritratto di usi ed atmosfere dei Natali di una volta, nonché nel richiamo a quei valori tradizionali che, da Dickens in poi, costituiscono l’ingrediente imprescindibile di ogni storia natalizia che si rispetti.

La narrazione inizia con un lungo flashback – senza dubbio la parte più riuscita – incentrato sulla storia personale del protagonista, e sulle circostanze che ne hanno inasprito il carattere; la seconda parte – probabilmente un po’ troppo dilatata rispetto al necessario – racconta invece il concretizzarsi del piano di Mr Danby, e vede l’entrata in scena dei piccoli “mercenari”.

Sir John Penlyon si mise gli occhiali e guardò i piccoli mercenari in modo più critico. La loro giovinezza e la loro corporatura minuta lo avevano scioccato. Si aspettava dei bambini saltellanti, con facce rosee, lunghi capelli ramati e gambe robuste che spuntavano sotto un vestitino corto. Questi, in confronto alle sue aspettarive, erano decisamente microscopici.
Le loro guance erano pallide, anziché rosee. I loro capelli non erano né ramati né lunghi. Avevano i capelli scuri e il taglio molto corto che faceva vedere le piccole testoline curate e tutte le protuberanze sulla fronte larga che denotava intelligenza. 
Gli occhi critici di Sir John gli facevano vedere dei bambini più intelligenti del comune, ma, per il momento, non era disposto ad accettare l’intelligenza al posto della grandezza.

È in queste pagine traboccanti di sentimentalismo, che emerge, a mio avviso, il principale punto debole della storia: non tanto il ricorso a personaggi stereotipati o la presenza degli immancabili momenti strappalacrime (consuetudini irrinunciabili nella letteratura vittoriana) bensì, almeno per quel che mi riguarda, la rappresentazione forzata e talvolta poco verosimile dell’infanzia.

Come non soffermarsi, nello specifico, sulla piccola Moppet: l’adorabile bimba dalla mente insolitamente vispa – e per questo, stando alle convinzioni enunciate nel racconto, fisicamente più fragile dei comuni “bambini ottusi” – in grado di conquistare il cuore dell’arido protagonista?

Leggere le sue esternazioni mi ha fatto istintivamente ripensare a certi film natalizi trasmessi in tv in questo periodo, dove i bambini sono in genere doppiati in italiano con delle leziose vocette da adulti che li fanno percepire come fastidiosamente finti.
Già, perché per quanto precoce e intelligente sia la piccola, trovo francamente difficile imamginare che, in qualsivoglia epoca storica, una bambina di appena quattro anni, peraltro stremata dalla febbre, potesse proferire simili frasi: 

“Ti prego, non essere infelice per causa mia… Non starò molto male, i bambini hanno spesso degli alti e bassi, sai, ma temo che dovrò fare il cataplasma”.

A dispetto di questi piccoli appunti, comunque, è innegabile che il racconto di Mary Elizabeth Braddon soddisfi pienamente l’intento della sua autrice: 

scrivere una storia sui bambini che fosse interessante per i piccoli lettori e, al contempo, non priva di interesse per gli adulti.

Una confortante parabola natalizia a lieto fine, insomma, ideale per una serata al calduccio del focolare domestico, che consiglierei specialmente agli appassionati della letteratura vittoriana

A chi invece, poco attratto dalla letteratura piena di buoni sentimenti, desiderasse approcciarsi per la prima volta a Mary Elizabeth Braddon, suggerirei forse di optare per qualcosa di più avvincente, come Il segreto di Lady Audley, la sua opera più famosa: forse non abbastanza sensazionale per gli standard odierni, ma indiscutibilmente ben scritta e ancora oggi perfettamente godibile


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